I prodotti di scarto derivanti dalla vita umana sono sempre stati un problema serio di difficile risoluzione. I rifiuti che normalmente possono essere immessi nell’ambiente vanno da liquami di varia natura a scorie di tipo nucleare. In passato lo smaltimento di questi rifiuti significava scavare un buco e scaricare il materiale di scarto e poi ricoprirlo. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”
Oggi però queste metodiche stanno creando non pochi problemi alla salute dell’uomo, di animali e ambiente.
I materiali tossici presenti in queste buche infatti hanno cominciato a fuoriuscire e a inquinare le falde acquifere e a determinare malattie di vario tipo, in particolare tumori sulle persone. Questo ha determinato lo sviluppo di determinate tecniche denominate convenzionalmente “bioremediation” che consentono tramite l’ausilio di batteri, funghi, e anche piante di trasformare o di degradare direttamente i contaminanti o renderli non pericolosi.
Il primo impianto biologico è stato creato in UK nel 1891, tuttavia il termine bioremediation non è stato coniato fino al 1987.
Ci sono tre classificazioni di biorisanamento:
· La biotrasformazione – o alterazione delle molecole contaminanti in altre meno pericolose; La biodegradazione – ossia la trasformazione delle molecole grosse in molecole più piccole più facilmente degradabili; La Mineralizzazione – è la trasformazione dei materiali organici in costituenti inorganici come CO2 o H2O4.
Questi tre classificazioni di biorisanamento possono avvenire sia in situ (al sito di contaminazione) o ex situ (il contaminante viene estratto dal sito contaminato e trattato altrove).
Ci sono vantaggi e svantaggi per tutte e due le strategie. Alternativamente a queste possono essere applicate altre tecniche come la Biostimolazione ossia l’aggiunta di sostanze nutritive, ossigeno o altri elettroni donatori e accettori al sito, al fine di aumentare la popolazione o l’attività di microrganismi presenti naturalmente che possono poi determinare il biorisanamento. Oppure Bioaugmentation ossia l’inserimento nel sito di microrganismi che possono biotrasformare o decomporre i contaminanti. I microrganismi aggiunti possono essere una specie completamente nuova o più ceppi
di una specie che esiste già sul sito. Il vantaggio è che non c’è da estrarre i contaminanti, quindi c’è meno esposizione alle sostanze contaminanti degli operatori , ed è anche meno costoso.
In questi anni il dr. Prisa si è specializzato nella messa a punto di alcuni protocolli che sfruttino proprio quest’ ultima strategia utilizzando in particolare i microrganismi EM (selezione di 83 ceppi di varia natura, Prisa 2012-2015) che possono agire direttamente sulla sostanza inquinante eliminandola oppure riducendola a molecole più piccole più facilmente utilizzabili da altri microrganismi già presenti sul sito.
I risultati più eclatanti sono stati ottenuti sul trattamento di cromo, piombo, mercurio, rame e sulla riduzione degli inquinanti prodotti dalle cartiere e dalle industrie del trattamento dei pellami. I dati dimostrano che già dopo poche settimane i metalli inquinanti vengono sensibilmente degradati. Ulteriori risultati importanti sono stati ottenuti sul trattamento dei fanghi di depurazione, sui bagni chimici e nel trattamento delle acque di vegetazione.
I protocolli innovativi sviluppati, possono garantire il trattamento direttamente in sito, applicando i microrganismi insieme ad altre sostanze che accellerano la degradazione delle molecole inquinanti. Ciò garantisce ovviamente una riduzione dei costi e minori rischi per gli operatori.
Per le acque inquinate invece utilizzando un protocollo apposito, si può determinare l’azione solo dei ceppi di microrganismi che effettivamente hanno un’azione diretta contro la molecola d’interesse, sfruttando diluizioni microbiche, temperature della selezione starter, altre sostanze nutritive da inserire nell’acqua o nel sito per richiamare l’azione anche di altri microrganismi utili.
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